About

L’antropologia medica è una delle specializzazioni maggiormente vitali e sperimentali nel campo delle discipline antropologiche. Nata dalla coniugazione tra riflessione teorica e impegno pubblico ha l’obiettivo di indirizzare i diversi filoni della ricerca antropologica verso la comprensione e l’analisi del versante socio-culturale dell’esperienza corporea e dei processi di salute/malattia. Un’attenzione che si concretizzata nella pratica etnografica, rivolgendosi alla continua integrazione tra dimensione biologica e dimensione sociale – condizioni storico-culturali, politico-economiche, sanitarie – nelle peculiarità che corpo, salute e malattia assumono in contesti storicamente determinati. L’antropologia medica offre nel quadro internazionale un vasto panorama di interessi e di oggetti di studio che si apre allo studio e all’interpretazione dei malesseri, delle malattie così come dei connessi sistemi di difesa della salute, delle pratiche terapeutiche e di cura, nella continua tensione generativa tra dimensioni locali e prospettive globali.

In occasione del primo convegno della SIAM – Società Italiana di antropologia Medica (Roma 21-23 febbraio 2013) – Tullio Seppilli, uno dei principali esponenti e fondatore dell’Antropologia Medica, ha individuato nella specificità del contesto italiano tre “momenti” o “snodi” della disciplina che appaiono intimamente correlati tra di loro. Il primo snodo di sviluppo epistemologico dell’antropologia medica è individuabile tra fine Ottocento e inizio Novecento caratterizzandosi per un interesse positivista verso le cosiddette medicine “tradizionali” o “popolari”, poi trasformato con la successiva svolta teorico-metodologica gramsciana nell’opera di Ernesto de Martino in Lucania (1958) e Salento (1961). Una svolta che si connette con il costituirsi, dopo gli anni Cinquanta del Novecento, di un ambito di ricerche pubbliche e operative rivolte alla costruzione di strategie per il ripensamento delle istituzioni e delle politiche sanitarie culminato con l’importante contributo dell’antropologia medica al movimento per il superamento delle istituzioni manicomiali.  Il secondo “snodo” segna, invece, la definizione della biomedicina o “medicina occidentale” come oggetto di riflessione dell’antropologia nei termini di un’interpretazione e di una critica storico-culturale orientata al disvelamento del suo carattere multiforme, internamente diversificato e conflittuale. Essa non viene considerata come un sistema unitario e razionale, ma come il prodotto di campi di forze in costante tensione fra loro, dell’ambiente storico-culturale e politico nel quale è praticata. In maniera connessa l’antropologia tende a evidenziare i limiti scientifici di una biomedicina che si concentra esclusivamente sulle determinanti naturalistico-biologiche, ignorando l’immensa area dei processi psico-sociali che si integrano e si incorporano con quelli biologici nei quadri patogenetici e nelle strategie per la salute. Assumendo una tale prospettiva teorico-metodologica per Seppilli il terzo e ultimo snodo si costituisce come uno spazio aperto alla dimensione pubblica e operativa dell’antropologia medica. Un invito a relativizzare il punto di vista critico sulla biomedicina tenendo presente la condivisione dello stesso spazio storico-culturale che ha prodotto sia il sapere scientifico biomedico sia quello antropologico. Su questa linea l’antropologia medica contemporanea, allo stesso tempo critica e dialogante con la biomedicina, si è orientata sempre di più verso un uso sociale dei saperi prodotti dalle etnografie come strumenti utili per la formazione di medici e di professionisti sanitari, così come nel campo epidemiologico e nel quadro progettuale delle azioni e delle politiche socio-sanitarie.